Anche ai parenti che non erano conviventi col defunto può essere riconosciuto il risarcimento del danno “da morte del congiunto”

L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 8218/2021 si è pronunciata in favore del risarcimento del danno da morte del congiunto, in capo ai nipoti della vittima di un incidente stradale (zio di questi ultimi), anche se non conviventi con il defunto.

In particolare, non può escludersi, a priori, la possibilità di provare, in concreto, l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto, anche se non convivente con le vittime secondarie.

L’uccisione del congiunto dà luogo ad un danno non patrimoniale consistente nella perdita del rapporto parentale per tutti quei soggetti legati da un vincolo parentale “stretto”, poiché va a ledere il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che connota la vita familiare “nucleare” (genitori, figli, marito, moglie).

Per ritenersi leso il rapporto parentale di soggetti al di fuori di tale nucleo (quindi ad esempio nonni, nipoti, genero, nuora), la giurisprudenza riteneva, generalmente, necessario un rapporto di convivenza con la vittima, quale requisito minimo a riprova dell’intimità dei rapporti parentali.

Tuttavia, la Suprema Corte, man mano, ha disatteso tale orientamento, consentendo la prova dell’esistenza di intensi rapporti tra vittima primaria e vittima secondaria, anche a prescindere dalla convivenza tra le stesse.

In tali recenti sentenze viene superato il principio che riteneva la convivenza quale presupposto essenziale per il riconoscimento del danno da morte del congiunto. Il requisito della convivenza veniva, infatti, ritenuto essenziale al fine di di evitare il pericolo di una dilatazione dei soggetti danneggiati secondari.  

Se, da un lato, occorre evitare una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari, dall’altro, l’assenza di un rapporto di convivenza non può costituire elemento idoneo a giustificare l’esclusione della possibilità di provare, in concreto, l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto.

La convivenza, dunque, non viene più ritenuta un connotato minimo, mediante il quale si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali, ma costituisce elemento probatorio, insieme ad altri elementi, utile a dimostrare l’ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti, oltre che utile a determinare la misura del risarcimento spettante.

Si è, ad esempio, riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale anche in favore del coniuge, ancorché separato legalmente e non convivente con la vittima primaria, purché l’altrui fatto illecito abbia provocato quel dolore e quelle sofferenze morali che, solitamente, si accompagnano alla morte di una persona cara. In tal caso è stato dimostrato che, nonostante la  separazione, sussisteva un vincolo affettivo particolarmente intenso tra vittima ed ex coniuge.

A di là delle mere categorie, dunque, è possibile dimostrare la qualità e la profondità dei rapporti che legano, ad esempio, anche zio e nipote, od i figli del coniuge o del convivente.

Non conta, dunque, ai fini risarcitori in caso di morte del congiunto, la sola “famiglia nucleare” o la convivenza, potendo apprezzare anche tutti quei rapporti basati su relazioni affettive, o di reciproca solidarietà, veri e particolarmente intensi.

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