Il risarcimento del danno da lucida agonia

In caso di decesso della vittima di malasanità, i suoi familiari hanno diritto ad ottenere un risarcimento per le sofferenze patite a causa della perdita subìta.

In alcuni casi, inoltre, i parenti della vittima ereditano anche il diritto al risarcimento per la sofferenza fisica e psichica, patita dal proprio caro, prima di morire.

Ciò accade quando tra le lesioni colpose e la morte cagionata dalle stesse intercorra “un apprezzabile lasso di tempo”.

In detto caso è configurabile, secondo la giurisprudenza, un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione dell’integrità fisica patita dal danneggiato fino al momento del suo decesso.

Tale danno, qualificabile come “danno biologico terminale”, dà luogo ad una pretesa risarcitoria trasmissibile per via ereditaria, da quantificarsi come inabilità temporanea.

Tuttavia, è necessario adeguare la liquidazione di tale danno alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno può essere massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero, sfociando nella morte del soggetto.

Questa voce di danno è configurabile, come detto, solo se, tra la lesione e la morte da essa derivante, intercorra un “apprezzabile lasso temporale”, non potendosi ammettere il danno biologico terminale in caso di morte immediata.

Affinché possa essere richiesta tale voce di danno, occorre, in sostanza, una netta separazione tra la lesione derivante da malpratica e la morte da essa derivante.

Il danno biologico terminale va distinto dal cosiddetto “danno catastrofale”.

Va, infatti, precisato che, in caso di evento mortale che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale (consistente, appunto, in un danno biologico da invalidità temporanea totale, che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una ulteriore componente di sofferenza psichica, che prende il nome di “danno catastrofale” (detto anche tanatologico, o da lucida agonia)”.

Il danno da lucida agonia viene ricondotto, dalla giurisprudenza più recente, al “danno morale soggettivo”, inteso come cosciente e lucida percezione, nonché attesa dello spegnimento della propria vita, trattandosi di pregiudizio che presenta, all’evidenza, una notevole intensità in termini di sofferenza.

La paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine è imminente; in difetto di tale consapevolezza (ad esempio se in paziente è incosciente), non può richiedersi il danno in questione.

Per quantificare queste tipologie di danni, l’Osservatorio sulla Giustizia civile del Tribunale di Milano ha stabilito che il danno tanatologico, da lucida agonia o danno catastrofale, insieme al “danno biologico terminale”, fanno parte del cosiddetto danno terminale, posta risarcitoria che può essere richiesta quando, tra le lesioni e la morte ad esse conseguente, intercorra un apprezzabile lasso di tempo fissato, convenzionalmente, in un numero massimo di 100 giorni.

Dunque, il danno terminale può essere riconosciuto se, tra le lesioni e la morte, intercorre un intervallo convenzionale massimo di 100 giorni.

L’Osservatorio dimostra, in questo modo, di condividere la tesi giurisprudenziale che nega il risarcimento del danno terminale in caso di morte immediata o verificatasi a brevissima distanza dalle lesioni.

Stabilito il termine massimo, è importante precisare che, per “intervallo di tempo apprezzabile” deve intendersi uno spazio temporale sufficiente, affinché la coscienza assimili e configuri il rischio della morte.

Tutte queste voci di danno rientrano, dunque, nel danno terminale, e non possono essere risarcite separatamente ed autonomamente, così da evitare il rischio di duplicazioni risarcitorie.

Per il calcolo del danno tanatologico si possono, quindi, utilizzare le tabelle del Tribunale di Milano relative al danno terminale, le quali garantiscono principi liquidativi omogenei nel determinare il risarcimento per ogni sofferenza fisica e psichica patita dalla vittima prima del decesso.

Il risarcimento viene quantificato in base al numero di giorni intercorsi tra il sinistro e la morte della vittima; secondo i medici legali interpellati durante la stesura delle tabelle, il danno terminale raggiunge il suo picco massimo nel periodo immediatamente successivo all’incidente, per poi diminuire col passare del tempo.

L’esperienza medico legale è giunta alla conclusione che il danno terminale da lesione tende a decrescere con il passare del tempo. Per questo, le Tabelle di Milano introducono un metodo tabellare che prevede, per i primi tre giorni, un valore risarcitorio massimo di € 30.000,00, mentre per i successivi 97 giorni valori risarcitori decrescenti: da € 1000,00 per il quarto giorno fino al minimo di € 98,00 per il centesimo giorno, pari al valore pro die riconosciuto dalla tabella per il danno biologico temporaneo.

I valori, dal quarto giorno in poi, sono, in ogni caso, ulteriormente personalizzabili, in base alle circostanze del caso concreto ed alla prova rigorosa del danno, nella misura massima del 50 %. Resta fermo che, in caso di lungo decorso, se la percezione della fine si verifica in un momento successivo rispetto alle lesioni, la tabella prevista per il calcolo del danno terminale andrà applicata a partire da siffatto momento.

Per il calcolo del danno terminale è data la facoltà al giudice di disporre un aumento del risarcimento (cosiddetta personalizzazione del danno) quando vengano riscontrate peculiarità nel caso concreto che giustifichino tale incremento.

Di conseguenza, mentre nel danno biologico terminale la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, nel caso del danno catastrofale, la natura peculiare del pregiudizio, comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo, che tenga conto dell’“enormità” del pregiudizio; ciò perché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo, nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte.

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